Il Tetto

Progetti e attività

Il nostro ponte di Messina

Capita anche di ricevere una email in cui un servizio sociale siciliano lanci un sos ad una lista di comunità per minori in tutta Italia dicendo più o meno così: “aiutateci, abbiamo troppi ragazzini sbarcati dalle navi ancora da sistemare in comunità, e non sappiamo dove metterli. Per caso avete posti liberi?”

Ecco, di solito è un po’ più facile. Abbiamo imparato ad occuparci di ragazzi che sono già a Roma, in qualche modo già identificati dal Comune, su cui c’è già un abbozzo di progetto.

Però ci siamo sentiti chiamati in causa e, avendo appena concluso dei lavori di ripulitura di due degli appartamenti che dedichiamo all’accompagnamento all’autonomia, abbiamo pensato di offrire i nostri sette posti liberi.

Nella settimana di ferragosto, anche attraverso le telefonate era chiaramente percepibile il livello di fatica. Il dirigente del comune che ti chiama di domenica mattina dalla banchina del porto, durante lo sbarco. Il responsabile del centro di accoglienza che ospita 125 ragazzini, in un ex albergo. L’organizzazione del passaggio dei documenti e, infine, mettersi d’accordo sul trasferimento.

Ci si vede a metà strada, come nei film. Appuntamento in un pomeriggio agostano all’uscita dell’autostrada ad Eboli.

Alessandro e Federico li aspettavano con un po’ di emozione. Una breve presentazione, caricate le loro poche cose nel bagagliaio e via. Tutti verso la nuova casa.

Un ragazzo viene dal Mali, quattro sono nigeriani, uno ivoriano, e un senegalese.

Segno distintivo la curiosità per quest’altro pezzetto del loro viaggio partito da lontano, è un po’ d’ansia nel lasciare Messina, che era stata la prima tappa tranquilla di un percorso assai accidentato.

Anche per noi è stato un po’ come un primo giorno di scuola …

La gita a piazza Venezia, il corso di italiano, le prime chiacchierate.

Tempo qualche giorno, necessario per superare un po’ la naturale diffidenza , ed è arrivato il momento di affrontare il racconto biografico e la descrizione del viaggio, due elementi su cui basare le eventuali richieste di asilo.

Magari qualcuno di noi italiani si è documentato su cosa succede in questi paesi lontani e che può spingere questi ragazzini a mettersi in cammino, poco più che bambini. Noi forse l’avevamo fatto un po’ distrattamente, e sederci davanti a loro con il blocco degli appunti in mano è stato come ricevere addosso una secchiata d’acqua gelata.

Frammenti di famiglie, fratelli persi per sempre di vista, nessuno a cui telefonare per raccontare di essere vivi.

Ha carne ed ossa, quella storia incredibile del villaggio colpito da lotte tribali e dei bambini che tornano da scuola per trovare tutti morti. Ascolti dalla sua vera voce, quella di chi è riuscito a fuggire dai tentacoli della setta nigeriana che, ancora ai tempi nostri, chiede agli adepti di sacrificare la vita del parente più vicino. E, ancora, del bambino che, rimasto orfano, si rifugia nella casa del nonno pastore di montoni nel Mali, fino a quando dei predoni non si pigliano tutto e lui si ritrova completamente solo.

Quasi il racconto di chi è “solamente” fuggito dalla mancanza di cibo nel piatto appare una quisquilia, se non ci fosse poi il racconto del viaggio. Uguale per tutti.

“Prima di salire sul pick-up mi hanno dato un bastone di legno”.

Siamo andati a vedere a cosa doveva servire, questo bastone. Ebbene, immagina trenta persone sedute sul cassone del pick-up, con le gambe a penzoloni di fuori. Il fondo del cassone riempito di taniche di benzina, perché nel Sahara non ci sono gli autogrill. Cinque giorni, praticamente senza soste, a tutta canna sulle piste del Niger, verso il sud della Libia. Se cadi resti lì. Non torneranno mai a prenderti.

Ecco perché il bastone, incastrato in mezzo alle gambe. Per tenerti attaccato a quel cassone della Toyota. Senza cibo, poca acqua, solo polvere e rumore e vento rovente del deserto.

E quando sei dall’altra parte, se ci arrivi, i guai sono appena iniziati. Se non hai abbastanza soldi, semplicemente, diventi uno schiavo. Mesi, a volte anni, passati a vivere in un tugurio e lavorare nei campi, fino a che non riesci in qualche modo a procurarti un passaggio fino a Tripoli.

E mostri le cicatrici, delle botte della polizia, delle pallottole dei trafficanti, delle coltellate dei rapinatori. Perché non è facile vivere da straniero in un paese come l’Italia, figurarsi in mezzo ai briganti del Maghreb. Che ne sappiamo, noialtri, di quanta violenza hanno assaggiato questi ragazzini, e quanta vista coi loro occhi?

E poi la spiaggia. Le urla, le armi, la notte, il freddo. In centoventi su un gommone. Uomini, bambini, famiglie. Ragazzini da soli.

E la paura, le onde, i pianti e il vomito. E butta fuori l’acqua col secchio. Che quando arriva la motovedetta e ti lancia i giubbotti salvagente ancora non ci credi, che ce l’hai fatta.

Ora ci resta un ulteriore ostacolo. Ma alla burocrazia italiana siamo più abituati, ci mette meno paura.

Mettere insieme la storia di ognuno serve a spiegare perché “lui” chiede di poter rimanere nel nostro Paese anche se vi è entrato senza rispettarne la legge. E a raccontare quali sono i suoi sogni e le speranze. E cosa si vuole fare per realizzarle. Perché lo sa, che non potrà fare il calciatore, e che la vita sarà dura.